UN TAGLIO NETTO CON IL PASSATO

 

L'8 settembre 1943 è una data di non ritorno. L'invasione tedesca è dura ma nasce la resistenza e il fascismo di Salò è solo un fantasma 

 

di Giorgio Marenghi

 

 

L’annuncio trasmesso dai microfoni dell’EIAR fece rabbrividire i vicentini. “Il governo italiano riconosciuta la impossibilità di continuare una impari lotta contro la soverchiante forza nemica ha chiesto l’armistizio che è stato immediatamente accolto...”.

 

Con questo comunicato il governo Badoglio si preoccupò anche di avvertire la popolazione che “... le truppe italiane reagiranno contro eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza...”. In città e provincia la, “fine” della guerra fu festeggiata da molti cittadini ma la maggioranza non si fidava. Le premesse infatti erano pessime. I tedeschi stazionavano in casa e il difficile periodo di transizione (dopo il colpo di stato del 25 luglio 1943 contro Benito Mussolini) gestito dal governo militare retto dal Maresciallo Pietro Badoglio aveva suscitato molte perplessità e timori in gran parte della popolazione.

 

Tutto lasciava presagire che ci si doveva preparare a periodi pericolosi. Ma gli antifascisti, desiderosi da troppo tempo di intervenire verso l’opinione pubblica mordono il freno e infatti la sera dello stesso 8 settembre, esattamente alle ore 19.45, si stampa a Vicenza con furia ed entusiasmo un giornale-volantino intitolato “Voce del popolo”, riprodotto e diffuso in migliaia di esemplari.

 

Redatto da Sergio Perin, Remo Pranovi, Gabetti, Mariano Rossi, Gino Cerchio, è tirato al ciclostile da Walter Nelli. Il messaggio è rivolto agli ufficiali, ai sottufficiali e ai soldati italiani:

 

 

“L’armistizio è firmato. All’erta! Dobbiamo difenderci da qualsiasi proditorio attacco da qualunque parte giunga e voi soldati di tutte le armi e di tutte le specialità ben sapete da dove può arrivare. Soldati italiani, se attaccati tenete duro, resistete fino allo spasimo, mai come in questo momento tutto il popolo lavoratore è con voi. Non occorre una divisa; i vostri figli, i vostri genitori, tutti saranno con voi nel supremo sforzo che dia all’Italia una pace giusta e dignitosa. Rivolgiamo un commosso omaggio a tutti i nostri fratelli caduti in questa cruenta lotta scatenata da un dittatore dispotico.” “Italiani! Dimostriamo di essere veramente degni di questo nome in un momento in cui tutte le forze della Nazione sono mobilitate per la salvezza e l’avvenire della nostra Patria”.

 

Ovviamente non tutti sono contenti dell’armistizio. Osvaldo Parise ex caporedattore di “Vedetta Fascista” (il quotidiano che precede il “Giornale di Vicenza” del periodo badogliano) si dimette dallo stesso quotidiano (dove si era riciclato) dopo aver appreso dell’armistizio con gli anglo-americani. In galera, attaccati alla radio “fremono” un centinaio circa di squadristi della prima ora rastrellati e rinchiusi a San Biagio a Vicenza per motivi di “sicurezza interna” su disposizioni del governo di Badoglio. Tra di essi alcuni membri del Direttorio del Partito Nazionale Fascista vicentino: il Cav. Uff. Giordano Bruno Bianco, Direttore della Centrale del latte, Alfredo Dell'Uomo D’Arme, Giovanni Caneva e molti altri.

 

COSA SUCCEDE DOPO L’INVASIONE

 

Il 9 settembre si passa dall’euforia alla paura. Tuttavia, volenti o nolenti le autorità dello Stato sono ancora al loro posto.Il Podestà, il cav. Angelo Lampertico, di fede monarchica, si prepara ai “tempi bui”. Il Prefetto badogliano, il Dott. Pio Gloria, intesse trattative frenetiche con i circoli antifascisti che rispuntano, con gli alti comandi militari, con tutti. Alcuni cittadini che hanno dormito fuori casa la notte dell’otto settembre si organizzano per fuggire, mentre i telefoni delle caserme impazziscono. La “Memoria 44”, diramata ai comandi dell’esercito tra il 2 ed il 6 di settembre prevedeva, in caso di una prossima cessazione delle ostilità, che si mettessero comandi e reparti in condizione di rispondere agli attacchi delle forze germaniche. Ma è troppo tardi e i tedeschi sono già vincenti su tutti i fronti interni del paese.

 

Verona cade il 9 settembre. A Vicenza arrivano lo stesso giorno, provenienti da Modena, le avanguardie corazzate delle divisioni scelte tedesche, “24”, “65”, “SS Hitler”, che poi procedono alla volta di Padova e Mestre-Venezia. In tutto il territorio soggetto alla giurisdizione militare dell’80 Armata italiana è il caos. A Montebello Vicentino accadono eroici fatti d’arme. Scontri sanguinosi con le forze d’invasione tedesche si accendono tutt’attorno agli stabilimenti militari dei comandi della 6 Armata reduce dalla Sicilia. 25 ufficiali e 90 tra sottufficiali e truppa resistono accanitamente fino al giorno 11, guidati dal Col. Galliano Scarpa.

 

In città elementi dell’Arma dei CC contrastano le sopraggiungenti forze tedesche, poi si sciolgono. All’aeroporto “Dal Molin” è il fuggi fuggi generale. Al Distretto Militare restano solo pochi ufficiali e soldati guidati dal Col. Evaristo Marzarotto che impone ai suoi subordinati di consegnare le armi ai tedeschi e di considerarsi prigionieri. Inutile dire che il Colonnello entrerà poi nei ranghi delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana.

 

Altri distaccamenti di entità insignificante, la caserma del 57° Regg.nto di Fanteria in città, i Presidi dei CC.RR. (Carabinieri Reali) e della Guardia di Finanza, vengono presi e disarmati subito. Eccezione il reggimento di artiglieria celere “Eugenio di Savoia” acquartierato presso le caserme di Viale della Pace. Qui, nella notte tra l’otto ed il nove, succedono cose gravissime. Il comandante, dopo aver dato l’ordine di dislocare i cannoni sulla rotabile per Padova parte “per destinazione ignota”.

 

Il Cap. Giuseppe Dal Sasso si avventura con dei camion a Marghera per prendere munizioni dai depositi ma quando torna trova i cannoni rientrati in caserma e i giochi fatti. Infatti nella giornata del 10 è tutto finito. I tedeschi circondano la maggior caserma vicentina (e la più pericolosa) e fanno prigionieri 1.200 uomini. Quattro soldati tentano la fuga ma vengono uccisi all’istante. I prigionieri vengono avviati stipati come bestie in camion per cavalli verso la stazione di Vicenza. Nel frattempo vi sono civili e militari che continuano a morire.

 

In città cadono sotto i colpi dei tedeschi Sasso Nerina, 21 anni, sarta, nei pressi di Via Pizzolati e Turato Novelia, 33 anni, casalinga, mentre cercavano di portare acqua e cibo ai nostri soldati scortati verso la prigionia. Il 10 settembre viene ucciso il soldato Zoso Virginio, 23 anni, il 12 è la volta di Lionello Fraboni, 20 anni, entrambi colpiti mentre cercavano di sottrarsi alla cattura.

 

 

E proprio il 12 settembre con il sangue ancora fresco dei caduti viene affisso alle cantonate dei muri di Vicenza un Manifesto del Podestà Angelo Lampertico alla cittadinanza. “Cittadini! Vicenza che ha tradizioni di civismo accolga con animo tranquillo le truppe tedesche che l’attuale triste situazione ha portato ad occuparla. Non atti ostili o di ostruzionismo, non occultamento di merci, che verranno pagate al cambio ufficiale o requisite con regolari buoni (vedi il servizio sulla “correttezza tedesca” qui a parte, N.D.R.); non rifiuto di ospitalità (per gli alloggi occupati verrà fatto inventario dei mobili); non artificiale alterazione di prezzi. Il Comando Tedesco non chiede che la leale collaborazione, pronto a reprimere con pari severità qualsiasi atto ostile che inconsultamente e inutilmente venisse da parte dei cittadini. A nuovi sacrifici saremo chiamati. Accettiamoli con fortezza nella speranza di un domani meno triste”.

 

LE PRIME REAZIONI IN PROVINCIA

 

In provincia la disgregazione dell’esercito suscita un’ondata di mobilitazione popolare. Innumerevoli gli episodi di soli¬darietà verso gli sbandati, numerosi anche gli atti di sabotaggio o di occultamento di armi e di munizioni. Il 10 settembre il brigadiere Cariesso Luigi e l’appuntato Guizzardi Agenore della Guardia di Finanza occultano sotto le aiuole della caserma di Vicenza 9.000 cartucce per moschetto ‘91 e pistola Glisenti. Verranno consegnate dopo pochi giorni ai primi “capi” partigiani, Marco Segato e Narciso Barban.

 

 

A Valdagno succede la stessa cosa. I militari di quella sede comandati dal brigadiere Domenico Ferrari nascondono 6 pistole Glisenti e parecchie centinaia di munizioni. “In località S. Maria di Panisacco gli italiani abbandonano due mitragliatrici St. Etienne e altre due in contrada Magaraggia...”. (da “Valdagno durante la Repubblica di Salò” di M. Dal Lago). Queste armi vengono poi recuperate da partigiani del luogo.

 

 

Ad Asiago alcuni cittadini si accordano con i militari del Battaglione “Genio Alpini Guastatori” per una resistenza contro i tedeschi. Viene deciso di fortificare la zona di Monte Zebio per ostacolare il passaggio delle colonne tedesche nell’Altopiano. Ma poi per l’insipienza dei comandi militari non se ne fa nulla.

 

 

Comunque “120 fucili, 80 mitra, 7 mitragliatrici leggere, 2 mitragliatrici pesanti, 4 mortai da 45 e 15 q.li tra munizioni e bombe a mano, teli da tenda, zaini e coperte” furono trasportati e nascosti nelle gallerie di Monte Zingarella a quota 1905 metri a nord di Asiago (G.Vescovi: Resistenza nell’Alto Vicentino,Vicenza 1976).

 

 

Numerosi sono i militari e i giovani che formano i primi gruppi di armati: gli sbandati del reparto “alpini guastatori” sono il nerbo della prima resistenza ma anche a Montagna Nova, allo Zebio, a Malga Logarezze si formano gruppi di giovani decisi ad opporsi ai tedeschi.

 

 

Molti prigionieri alleati vengono aiutati e nascosti in case della zona. I gruppi armati provvederanno poi a smistarli e a dirigerli verso la Svizzera.

 

 

Nello stesso tempo si forma un primo organismo “politico” della resistenza altopianese composto dal dott. Cavazzani, Don Angelo Dal Zotto, Titta Alzetta, Piero Benetti, i fratelli Scaggiari, Piero Dal Sasso, Rodighiero Alfredo e altri (cfr. G.Vescovi op. cit.).

 

 

Ad Asiago e dintorni durante il mese di settembre ed ottobre l’organizzazione rimane pura-mente clandestina e non da luogo ad azioni armate. E’ necessario creare dal nulla una struttura organizzativa, curare i rifornimenti, i collegamenti con gli organismi politici e militari della pianura.

 

 

Sempre nella zona dell’altopiano, a Fontanelle di Conco subito dopo l’invasione tedesca, circa verso il 20 di settembre una trentina di giovani sbandati, guidati da quattro “quadri” del partito comunista che avevano fatto esperienza nella guerra civile spagnola (Giuseppe Crestani di Conco, Alvise Zorzi di Venezia “Pirro”, Ferruccio Roiatti “Spartaco”, Tommaso Pontarollo di Vaistagna) danno vita al distaccamento “MonteGrappa”.

 

 

Il gruppo di Fontanelle, eterogeneo dal punto di vista politico (molti erano gli elementi del luogo di tradizione cattolica), sarà comunque il più vivace sotto il profilo militare e l’unico a dar luogo ad azioni riuscite ai danni dei fascisti repubblicani di Valstagna, Marostica e nell’Altopiano (cfr.M.Faggion, G.Ghirardini, N.Unziani: Malga Campetto, Odeonlibri, 1989 Vicenza, pag.27 e segg.).

 

 

A Schio nei giorni dell’invasione, 10,11 settembre 1943, vengono svaligiati alla stazione ferroviaria alcuni vagoni merci carichi di armi. Alla caserma “Firenze” in Via Porta di Sotto alcuni cittadini riescono ad impossessarsi di 40 fucili abbandonati dal presidio in fuga. Il 10 settembre nei dintorni di Schio, sulle colline in località Aste, Formalaita e Festaro numerosi sbandati e giovani del luogo si radunano armi in pugno pronti alla lotta.

 

 

I gruppi riuniscono per un periodo breve circa un centinaio di persone, poi i “fissi” saranno di meno ma in compenso cresce un embrione dì organizzazione. Il comando è fin dall’inizio nelle mani di Igino Piva “Romero”, ex garibaldino della guerra di Spagna e quadro del partito comunista.

 

 

Altri elementi di spicco Eugenio Piva (anch’egli combattente nelle Brigate Internazionali), Pierin Bressan, Biagio Penazzato e Nello Pegoraro. Le armi non mancano, anzi sembrano essere superiori alle possibilità numeriche del gruppo (cfr.Quaderni della Resistenza, Schio, numero 1, ottobre 1977, pagg,60 e segg.) per cui vengono nascoste in posti diversi o affidate ad altri gruppi.

 

 

A Fara Vicentino una quarantina di soldati angloamericani fuggiti dai campi di prigionia si unisce a ex soldati italiani e a giovani del posto. L’iniziativa darà poi frutti in seguito quando i contatti saranno resi stabili con l’inserimento di elementi esperti collegati al CLN.

 

 

Un altro piccolo gruppo di dodici persone si riunisce a Torrebelvicino, in località Masetto e La- ghetto. Vengono riforniti di armi dal grup-po del “Festaro” (vedi Quaderni della Resistenza, op.cit.).

 

 

Da Vicenza il 14 ottobre partono in sei (Bruno Bazzacco, Cariolato Secondo, Cariolato Antonio, Mattolin Sergio, Piccolo Gugliardo, Danilo Toniolo) con destinazione Bosco di Marana. Il gruppo organizzato da Livio Bottazzi di Vicenza trova subito collegamenti con gli antifascisti di Valdagno, Sergio Perin, Pietro Tovo (addetto militare del CLN di zona) ed altri.

 

 

Nella zona la rete del partito comunista sta già organizzando la struttura clandestina. Fin dal giorno 10 sono più di un centinaio i militanti e simpatizzanti che aprono le loro case agli uomini che vengono dalle città del Veneto con le disposizioni politiche del momento. A Recoaro Giuseppe D’Ambros “Marco” prepara le condizioni materiali per la lotta armata contro i nazifascisti.

 

 

 

SI COSTITUISCE L’AUTORITA’ DELLA RESISTENZA

 

 

Ma rivolgiamo ora uno sguardo al fronte dell’opposizione antitedesca ed antifascista. Nelle giornate convulse dell’8 settembre, o meglio dei giorni 10, 11 e seguenti si svolgono combattimenti sporadici e, come abbiamo visto, si tenta di dar corpo ad aggregazioni armate spontanee.

 

 

Occorre però attendere la metà del mese perchè si definisca la struttura propriamente politica della resistenza vicentina. In precedenza, a partire dal 26 luglio 1943, si era venuto consolidando il Comitato provinciale interpartitico composto dai rappresentanti dei partiti di sinistra e del Partito d’Azione e che annoverava i seguenti personaggi: Mario Dal Prà, Licisco Magagnato, Sergio Perin e Remo Pranovi (Part.d’Azione), Marcello De Maria e l’avv. Mario Segala (P.S.I.), Gino Cerchio, Giordano e Carlo Campagnolo, Antonio Emilio Lievore (P.C.I.).

 

 

 

E proprio da questo Comitato interpartitico viene nominato un Comitato militare che il 9 settembre nelle persone di Gino Cerchio e Mario Dal Prà chiede la consegna delle armi a favore degli antifascisti al comandante del presidio di Vicenza.

 

 

L’ovvio rifiuto opposto dal militare di carriera, che non aveva ben capito la situazione, non scoraggia la ricerca delle armi abbandonate dai reparti in sfacelo. Con l’occupazione tedesca i membri del comitato si danno alla clandestinità. La più parte si allontana da Vicenza; Gino Cerchio ed Emilio Lievore si rifugiano a Campolongo dei Berici mantenendo i contatti grazie al personale dell’autolinea Vicenza-S.Germano. Il 17, purtroppo, vengono arrestati Fiorenzo Costalunga e l’avv. Mario Rezzara, Direttore delle Tramvie Vicentine, reo di aver fatto abbattere le insegne del littorio che ornavano la stazione tranviaria di Vicenza.

 

 

Non tutti comunque si sentono “scoperti”, il 16 settembre infatti a casa di Gigi Meneghello in città viene tenuta una riunione di carattere “militare”. Viene redatto un piano ed una ripartizione delle zone della città. Tutte queste iniziative, molte volte parallele, danno pure qualche risultato: i fascisti subiscono con notevole stupore una sparatoria con armi pesanti (due mitragliatrici manovrate da giovani cattolici guidati da Giorgio Mainardi) alla stazione ferroviaria di Vicenza.

 

 

Le mitragliatrici vengono poi occultate da Alessandro Stefani nella cabina di proiezione del Cinema Italia causando notevoli disagi all’operatore costretto a degli equilibrismi per poter svolgere il suo lavoro. In seguito viene trovato un altro nascondiglio: l’edicola di giornali di Bruno Campagnolo. Di qui, imballate per bene, vengono spedite normalmente con pullman di linea a Salcedo (cfr.G.Campagnolo, L.Cerchio, A.E.Lievore: Contributo per una storia della resistenza nella provincia di Vicenza).

 

 

Verso la fine del mese di settembre viene costituito il Comitato di Liberazione Nazionale della provincia di Vicenza. Sulla data esatta ci sono varie versioni ma ci sembra di poter affermare che sicuramente dopo il 15 settembre 1943 a Vicenza Domenico Marchioro (P.C.I.), L’avv.Segala (P.S.I.), il giudice Ettore Gallo, il prof. Mario Dal Prà (Part.d’Azione) avviarono le prime riunioni. Torquato Fraccon (D.C.) arriva più tardi. Ettore Gallo così ricorda quell’evento: “Lo scrivente...non ritiene di avere appartenuto al Comitato interpartitico, ma bensì al Comitato Provinciale di Liberazione. Ne dovrebbe conseguire che se è esatta la data del 23 settembre come quella sotto cui il Col. D’Ajello fu nominato comandante militare provinciale, la trasformazione del Comitato interpartitico in C.L.N. dev’essere avvenuta nello studio Segala, di Via Pasini, presenti certamente-oltre allo scrivente Marchioro, Faccio, Fraccon, lo stesso Segala, Mons. Stocchiero, nonché Mario Malfatti e l’ing. Rigoni di Asiago per la parte militare..” (da Convegno di studio: La resistenza nel vicentino-relazione di sintesi a cura di Ettore Gallo-Vicenza 25 gennaio 1976, pag.11).

 

 

SERRATE LE FILA! MA C'E’ CHI NICCHIA

 

 

E i fascisti? Il messaggio di Benito Mussolini (liberato da paracadutisti tedeschi dalla prigione del Gran Sasso e trasferito in Germania) arriva con flebile voce dai microfoni di Radio Monaco la sera del 15 settembre. “Camicie nere, italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che la riconoscerete”. Poi detta le sue volontà "... riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati... proporre senza indugio la riorganizzazione delle nostre forze armate attorno alle formazioni della Milizia ...”

 

 

E’ il segnale. Occorre lustrare la camicia nera, rinverdire i fasti delle “squadre”, pensare alle sedi (chiuse), ai quadri del partito, ai delusi, ai vigliacchi, agli opportunisti beneficiati dal Regime che ora nicchiano. Ma i segnali non sono incoraggianti.

 

 

All’arrivo dei tedeschi sui Colli Berici vivacchia soltanto, a ranghi ridotti, uno striminzito battaglione della 42ma Legione Berica della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Porta le stellette (è stato integrato da Badoglio nell’esercito dopo il 25 luglio 1943) e si squaglia. Cosa resta?

 

 

I fedelissimi. Che sono vecchi e per di più in galera fino a nuovo ordine. Si deve però fare buon viso a cattiva sorte. All’uscita di prigione, il 12, si “riorganizza”. O per lo meno si tenta. Viene ripescato Bruno Mazzaggio il Federale. Non ne ha tanta voglia, il 25 luglio ha lasciato il segno e ... poi occorre sentire cosa ne dice il Duce.

 

 

Giambattista Polga e Giovanni Migliorini, entrambi “Sciarpa Littorio” e squadristi della prima ora si lanciano per conto loro per un omaggio, incontro ai tedeschi. Poi si danno da fare per tirar fuori da S. Biagio i “camerati” ancora rinchiusi nonostante gli avvenimenti.

 

 

Guido Dell'Uomo D’Arme (fratello di un recluso politico) comanda un improvvisato servizio d’ordine fascista per le strade della città. Dal Prof. Edoardo Fanton, pediatra all’Ospedale S. Bortolo e membro di prestigio del partito vicentino, si precipitano i più esagitati. “I tedeschi stanno arrivando ... che facciamo?” Fanton si fa latore dei “bisogni” dei camerati ma riceve da Mazzaggio una doccia fredda. “Mi sono impegnato con il Prefetto (Pio Gloria, ndr) che non ci muoviamo ... lasciamo fare ai tedeschi.

 

 

Dopo la burrasca dei giorni 11 e 12, cessate le sparatorie e ristabilita una certa calma in città, è il tempo delle presentazioni con gli invasori. Che dal canto loro si dimostrano freddini. Le sedi restano per il momento chiuse e indisponibili, gli edifici migliori li occupano senza tanti complimenti i tedeschi.

 

 

TRAGICI QUEI GIORNI 

 

 

All'aeroporto di Vicenza “Dal Molin” aveva sede nei settembre 1943 il Comando del 47° e del 107° Stormo comprendenti quattro squadriglie. Gli aerei in dotazione erano i Cant Z 1007 trimotori, che furono sostituiti negli ultimi giorni dai Cant Z 1018 bimotori, facenti funzione di caccia bombardieri. Ma questi aerei non furono impiegati perchè, gli avvenimenti precipitarono.

 

 

Il personale addetto si poteva stimare in una settantina di uomini, ma nel mese di agosto 1943 arrivarono circa duecento militari da aeroporti, avieri di governo, aiuti specialisti, ecc. che portarono le presenze a circa trecento uomini.

 

 

I giorni che precedettero l’8 settembre passarono in una calma irreale. I militari presenti nell’aereo- porto si muovevano come se nessun ordine venisse impartito. Ognuno vagava senza scopo. Il giorno 3 settembre, fra le palazzine e gli hangars furono sistemate tre o quattro postazioni di mitragliatrici con tre inservienti e mucchi di nastri di proiettili. Non si capiva bene a cosa potessero servire. Forse al Comando qualcuno sapeva cosa stava accadendo.

 

 

Il diradarsi delle presenze di ufficiali e sottoufficiali faceva pensare che qualcosa di grave stesse accadendo. Il giorno 7 settembre un aereo proveniente da Rodi, atterra sulla pista dell’aeroporto a mezzogiorno. L'operatore radio, è un mio amico e ci rivediamo dopo un anno. Dopo i saluti mi dice: “Laggiù, un caos, nessuno ci capisce nulla”, dopo un pò, allungandomi qualche pacchetto di sigarette dice: “lo non torno più laggiù, il motore dell'aereo è in avarìa, io ne approfitto e torno a casa per il momento!”.

 

 

Il 10 mattina sembrava che tutti i militari si fossero dati convegno davanti agli hangars, forse aspettavano ordini che non venivano. Verso le 10 del mattino quattro o cinque ufficiali tedeschi stavano sulla linea di volo aspettando di imbarcarsi su uno JU 52 che da qualche giorno faceva la spola fra l’aeroporto e qualche località del Nord Italia.

 

 

Alle 10 e qualche minuto si sentono dei colpi di arma da fuoco nella zona est del campo, seguiti da qualche scoppio più forte. E qui accadde l’incredibile. Una massa di centinaia di uomini in divisa si riversa verso i cancelli di uscita dell’aeroporto. Correndo all’impazzata questi avieri raggiungono la zona di Porta S. Croce, Porta Nuova, i Carmini. E' un brulicare di uomini che non sanno dove andare, sono alla ricerca di abiti civili. Si sparge la voce che autoblindo tedesche stiano dando la caccia agli sbandati. Molti si nascondono nelle campagne, altri trovano ospitalità e vestiario in città. La notte, qualcuno che non è riuscito a nascondersi vaga in mutande e canottiera tra i portici di Corso Fogazzaro”. (Testimonianza di Danilo De Noni, Vicenza aprile 1989)

 

 


I PRIMI GIOCHI TRA I FASCISTI

 

 

Il connubio fascisti e tedeschi non suscita grandi entusiasmi tra le fila dei nuovi iscritti al fascio repubblicano vicentino. Poche le adesioni al nuovo partito. Nei giorni di settembre quasi niente, salvo il manipolo dei fedelissimi che si erano subito adunati attorno alla figura simbolica del “Federale” Bruno Mazzaggio.

 

 

Mazzaggio tiene fede alla consegna. A malincuore o no, racimola qualche decina di squadristi ancora presenti in città e provincia e ritesse le fila di un movimento con il morale a terra. Il 17 di settembre 1943 “tiene rapporto alle gerarchie del P.F.R.” come recita un trafiletto del “Giornale di Vicenza”. Il tono (almeno dal resoconto giornalistico) è disteso e retorico.

 

 

Si fanno grandi promesse di fedeltà all’alleanza con i nazisti e al tempo stesso si dichiara che "... nessuna imposizione nessuna vendetta ma una volontà tesa ad una fervida fusione fra popolo e soldati ed una pronta collaborazione con le autorità e le forze armate tedesche ...” saranno le caratteristiche del futuro.

 

 

Troppo poco per il rinascente “squadrismo” che invece si sta spostando su posizioni di intransigentismo “rivoluzionario”. I fascisti repubblicani, vecchi o giovani, si sentono chiamati dal destino a dare una lezione agli “indecisi” e soprattutto ai “ribelli” che nel frattempo si stanno diffondendo dappertutto in provincia.

 

 

I più accesi in città si organizzano per fare la fronda ai “vecchi” gerarchi del Ventennio. Per aggiustare le cose il prefetto Dott. Pio Gloria passa le consegne al fascista (già prefetto di Vicenza) Neos Dinale. Il capitano Angelo Berenzi (ai primi di ottobre diventerà il direttore del nuovo quotidiano “Il popolo vicentino”) soffia sul fuoco. Altrettanto fa Giovanni Caneva, da sempre desideroso di scalare la piramide gerarchica vicentina.

 

 

E sarà proprio lui, già responsabile dell’ Ufficio Sindacale della Federazione di Vicenza ad incendiare gli animi dei fascisti e ad organizzare una riunione segreta tenutasi nei primi giorni di ottobre del 1943 all’Albergo Due Mori. Quivi, dopo duri e tesi conciliaboli si decide di muovere “all’assalto” del Palazzo Littorio di Vicenza, per defenestrare i “molli e gli attendisti” coloro cioè, e Mazzaggio viene considerato l’esponente principale che non sono all’altezza della situazione. Una commissione di squadristi capeggiata dal Berenzi si reca subito dopo alla direzione del P.F.R. per chiedere la testa del Federale.

 

IL "TIEPIDO” MOLLA

 

 

E a Bruno Mazzaggio non resta che mollare. Comandante militare fino all’8 settembre del forte di Osoppo (trattò la resa ai tedeschi del distaccamento del Regio esercito) Mazzaggio è chiamato ad un “chiarimento” con i leaders del rinato regime. Va a Gargnano (residenza di un Mussolini ritornato dalla Germania ancora frastornato e indeciso) e subisce forti pressioni per assumere l’incarico di Alto Commissario Politico del P.F.R. per il Veneto.

 

 

Ma il decorato al valore dell guerra del 15-18, e comandante di un reparto di artiglieria sul Grappa ove era inquadrato anche suo fratello morto i combattimento contro i tedeschi, non intende collaborare con l’invasore. Adduce motivazioni “forti”. Per quei momenti controcorrente: “non se la sentiva di ubbidire, agli ordini di qualche caporale tedesco ...”. (Testimonianza orale del fratello Aldo Mazzaggio - Vicenza settembre 1984).

 

 

Dopo breve tempo viene “promosso” commissario governativo dell’AGIP a Milano. E al “soglio” fascista vicentino sale Giovanni Caneva e il suo manipolo di fedelissimi. Il nuovo Federale deve fare fronte a gravissimi problemi di tenuta politica e sociale (nonchè, militare). Le iscrizioni per il Partito Fascista Repubblicano vanno male: in provincia le sedi stentano a riaprire, certi “fasci” partono solo in novembre, dicembre.

 

 

Molti comuni vengono commissariati, i vecchi podestà spariscono, e per sostituirli ce ne vuole. Meglio il Commissario Prefettizio. Caneva decide per una linea di “attivismo” sociale. Si circonda di parenti e di “puri” anche di “duri”. Segretario particolare e capo dei servizi politici viene nominato il Dott. Giulio Vescovi combattente decorato nella guerra d’Africa.

 

 

I fratelli Duilio e Fausto trovano un lavoro nella Federazione di Via S. Marco. Viene pure istituita una “squadra speciale d’azione" formata da 19 elementi (Longoni Renato, Caneva Duilio, Caneva Fausto, Zanini Antonio, Boschetti Rodolfo, Indelicati Paolo, Polazzo Oreste, Polazzo Franco, Girotto Mario, Rizzato Walter, Conforto Giuseppe, Londani Bruno, Brogliato Gino, Schiesari Adelmo, Sarto Angelo).

 

 

Un' altra squadra più organica di 24 elementi diretta da Giacinto Caneva, Roberto Roberti e Valente Francesco viene organizzata in tutta fretta poichè, giungono le prime brutte notizie dalla provincia.

 

 

NUOVO FEDERALE MA SUBITO IN LUTTO

 

 

Il 12 novembre 1943, Vicenza ha un nuovo “Federale”. Giovanni Caneva, nella sede di Contrà S. Marco, riceve le consegne dal predecessore, il “tiepido” (e contestatissimo) Bruno Mazzaggio. La sua reggenza è però fin da subito segnata da fatti drammatici.

 

 

Il 21 novembre alle ore 6 del mattino di una fredda domenica, in località Vallonara nei pressi di Marostica, mentre si dirige a Lusiana subisce un agguato il sessantenne ex squadrista Alfonso Caneva, zio del neo-federale. Il suo furgoncino, colpito da un proiettile al radiatore, si blocca in mezzo alla strada. Nell’oscurità si ode un secondo sparo e Alfonso Caneva, colpito al capo, muore all’istante.

 

 

Immediata la reazione degli squadristi. Rimpolpati da nuclei di furibondi camerati vicentini i fascisti repubblicani cingono d’assedio la sera stessa il centro di Marostica. Colpi di fucile in aria, grida concitate e inviti, a "fare presto e subito come a Ferrara!” (dieci antifascisti fucilati alla schiena). Le squadre rastrellano e alcuni giovani antifascisti o presunti tali sono agguantati, picchiati, e messi al muro.

 

 

MA SORGONO I PRIMI CONTRASTI

 

 

C’è chi si defila. Quelli della Guardia Nazionale Repubblicana obiettano che per ammazzare ci vuole almeno un regolare processo. La confusione è alle stelle. Così recita il giorno dopo il quotidiano “Il Popolo Vicentino” (che sostituisce “Il Giornale di Vicenza” soppresso dopo l’Otto settembre): “... La giusta e pronta rappresaglia, mentre nello stesso tempo si svolgevano le indagini per la scoperta degli assassini ha voluto, oltre che vendicare il caduto, dimostrare che i fascisti repubblicani vicentini sono fermamente decisi ad impedire e a reprimere sanguinosamente qualsiasi iniziativa dei venduti al nemico per turbare la pubblica disciplina minacciando la sicurezza della Patria in armi. La popolazione di Marostica e della zona è stata la prima che ha potuto collaudare, manifestando del resto iI proprio fervido consenso e la propria simpatia, il fulmineo intervento delle squadre d’azione...”.

 

 

E’ evidentemente, un pessimo biglietto da visita per la nuova “legalità repubblicana” sancita pomposamente dai “18 punti di Verona”. Al numero tre del “Manifesto Programmatico” (della RSI) si legge tra l’altro: “Nessun cittadino, arrestato in flagrante, o fermato per misure preventive, potrà essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine dell’autorità giudiziaria. Tranne il caso di flagranza, anche per perquisizioni domiciliari occorrerà un ordine dell’autorità giudiziaria...”.

 

 

"SIAMO TUTTI REPUBBLICANI"

 

 

Il nuovo partito vicentino nasce anch’esso all’insegna di molte, troppe, contraddizioni. La cocente umiliazione del 25 luglio (il Colpo di Stato del Maresciallo Badoglio), il progressivo e costante allontanamento di molti camerati, lo choc dell’otto settembre, il gran parlare di ideali “sociali”, la diffidenza plebea verso i gerarchi, il confuso ritorno alle remote origini, rosicchiano credibilità e rappresentatività ai superstiti del “Ventennio”.

 

 

Per farsene un’idea è sufficiente leggere i primi comunicati dei rinati fasci provinciali. Il 1° ottobre la Reggenza provvisoria del Fascio Repubblicano di Bassano fa affiggere un manifesto del seguente tenore: “Cittadini, affinchè non sia stato vano il sacrificio di coloro che sono morti perchè la Patria non morisse, sorge in circostanze oltremodo gravi, sotto una purissima luce di fede, il Partito Fascista Repubblicano. Mutilati e combattenti hanno già data la loro incondizionata adesione; uniamoci a loro per ricostruire quella che gli italiani indegni hanno prostrata e umiliata: la Patria. Viva l’Italia, viva il Duce!”.

 

 

 

Di parere del tutto diverso, per lo meno nei modi più “politico” e più conciliante “il manifesto del Fascio di Schio. Motivo conduttore: la concordia nazionale. Segno che non tutti la pensavano alla maniera di Alessandro Pavolini (il duro del Partito) e che la “purissima fede” qua e là aveva delle smagliature.

 

 

“Sotto il tormento della più dura procella che da secoli si sia abbattuta sulla nostra Patria, vi invitiamo tutti ad una fraterna unione per dividere assieme ed assieme lenire i dolori di queste tragiche ore. Nessuna vendetta contro nessuno, nessuna acrimonia tra figli dello stesso suolo Dobbiamo stringerci tutti in una grande affettuosa famiglia, amarci con nobiltà e profondità di intenti. Ogni casa ha il suo lutto. Ad ogni desco manca un figlio. Noi dobbiamo sopravvivere per quelli che sono morti e per quelli che attendiamo ansiosamente. Dimenticate ogni ombra del passato. Perdonate per i nostri bambini che nulla sanno, per la loro felicità avvenire. Ogni famiglia deve essere tranquilla; in ogni casa deve regnare la serenità. Vi invitiamo alla disciplina, al lavoro, al rispetto delle truppe tedesche. Anche ogni soldato tedesco ha la mamma che lo attende. Quando un giorno sul placato continente europeo, brillerà la stella della pace, non avremo a dolerci di aver amato il nostro prossimo vicino e lontano: non avremo a dolerci di aver compiuto il nostro dovere di soldati e di cittadini”.

 

 

 

Il tasto dell’unità di popolo “al di sopra delle parti” viene ripreso da molti altri oratori e articolisti. Nino Ventra deII’Opera Nazionale Balilla di Vicenza, giunge ad invitare i giovani ad arruolarsi nella Milizia “a qualunque tendenza politica apparteniate". E’ solo fumo e presto le ambiguità dettate dallo sconcerto per la situazione caotica e dalla confusione delle idee e delle strategie lasceranno il posto alle feroci “intemperanze” dei “duri”, gli unici del resto in grado di combattere una guerra civile.

 

 

 

UNA RICOSTITUZIONE FORZOSA

 

 

E che sia una “guerra civile strisciante” i fascisti repubblicani lo avvertono fin dai primi giorni di ottobre. Il comandante la 42ma Legione Berica della già disciolta Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.), Galesio Nichesola, ordina la mobilitazione. I renitenti saranno deferiti ai Tribunali militari di guerra.

 

 

In città e in provincia è tutto un susseguirsi di ordini, bollettini, annunci con la maiuscola, ecc..Le fabbriche di alimentari devono considerarsi sequestrate (ma qui i fascisti barano perchè ci sono già i tedeschi che arraffano tutto il possibile della produzione nazionale), i fasci provinciali squillano la tromba della propria ricostituzione; giovani italiane e balilla devono dare il buon esempio.

 

 

 

E’ un groviglio di iniziative frettolose buone a dare l’impressione all’opinione pubblica che il paese “è in piedi” proprio come nelle immagini dei manifesti di Boccasile. Ma le difficoltà emergono tra il ciarpame della retorica. Il nuovo fascismo di Salò perde infatti per strada centinaia di ex squadristi, federali in pompa magna, camerati “fascia littorio e marcia su Roma”.

 

 

 

Nei centri più grossi, a Schio, Thiene, Valdagno, il Partito Fascista Repubblicano si costituisce con molte difficoltà in ottobre, ma nei paesi l’attesa è più lunga. In ogni caso ai reggenti, per un pò, finché le cose non si chiariscono, si preferisce il “quadrunvirato”, formula diplomatica che nasconde le incertezze dei nuovi camerati repubblicani.

 

 

 

A Valdagno la prima assemblea del P.F.R. si tiene il 24 ottobre, a Thiene il 26 il Fascio ritorna nella sua vecchia sede, a San Nazario si riapre lo stesso giorno. Ad Arzignano il Podestà non c’è più e subentra il 30 ottobre il Dott. Ottorino Caniato nelle vesti di commissario prefettizio.

 

 

Lonigo, a fine mese, ottiene finalmente il suo Fascio retto da un triunvirato (Griffani, Panato, Soso). Albettone riapre il 2 novembre con un “triunvirato provvisorio”. Il 4 novembre a Valdagno si "elegge” il segretario politico nella persona di Andrighetto, vice segretario Urbani, direttorio: Emilio Carlotto Agosti Agostino, Ugo Cazzola, avv. Vito Limoli, rag. Emilio Tomasi. Nove raggiunge traguardo il 6, Camisano il 9 con Silvio Toniolo come "ras". Thiene il 24 novembre, dopo lunga discussione, elegge una pentarchia: reggente Oreste Domerillo; pentarchi: Marco Umanizzi, Vincenzo Monti, Carlo Scalco, Arrigo Tomasi; tutti personaggi “targati” del "mondo della produzione”. Nessun politico di provata esperienza.

 

 

 

Anche a Bassano, il 30 novembre, appare una pentarchia. Commissario (in attesa che esca il reggente) Amerigo Lulli; pentarchi: Dott. Millo Dall’Oglio, Eduardo Orio, Raffaele Rach, Bruno Bonato, Franco Sandrini. Nei paesi della pedemontana occorre attendere di più. A Roana il Fascio si affaccia timido solo il dicembre 1943. A Marostica, che ha goduto il primo intervento delle rinate ''squadre d’azione”, il partito mostra il suo volto pubblico solo nel gennaio 1944.

 

 

Ad Asiago, Altissimo, Arcugnano, Arsiero e in molti altri centri della provincia i reggenti assumono la carica solo verso la metà di gennaio. La mobilità sarà però altissima e la Federazione di Vicenza avrà il suo bel daffare per rimpiazzare caduti e dimissionari.

 

 

 

LA MOBILITA` DEI REGGENTI

 

 

Le grane più grosse comunque il fascismo repubblicano vicentino e il suo Federale devono fronteggiarle in provincia. Qui la resistenza clandestina, fin dal mese di settembre, fa sentire la sua voce ed il peso delle sue prime formazioni armate. Alcune uccisioni per di più (il fascista Edoardo Pavin cade in un agguato il 18 dicembre 1943 a Vicenza) gettano lo scompiglio tra i reggenti dei Fasci.

 

 

E la “mobilità” interna al P.F.R. aumenta considerevolmente. A Valstagna, località ove viene ucciso il 25 dicembre il ten. col. dei bersaglieri Antonio Faggion, il reggente, Luigi Allegri, dura esattamente sette giorni, dal 20 al 28 gennaio 1944.

 

 

Ad Agugliaro Aurelio Zenari si fa più onore: dal 15 dicembre 1943 al 19 gennaio 1944! Un record. A Noventa Assuero Fontana, giubilato il 16 gennaio viene sostituito da Mario Fortunato il 25 febbraio 1944. E continuiamo pure con Alonte: Romano Rigotto “sale” il 19 gennaio, scende il 25 febbraio.

 

 

A Sarego Guido Bisognin inizia il 20 gennaio e molla il 14 marzo a Guglielmo Ricci. A Bressanvido c’è invece fretta. Bortolo Barella (dal 15 al 28 gennaio 1944) colleziona solo due settimane. Si va meglio a Piovene Rocchette con Alfredo Menegardi (19-1- 44; 24-2-44) che si fa sostituire da Giovanni Alcaro. Posina viene retta per quindici giorni (dal 20 gennaio al 6 febbraio 1944) da Guerrino Cecchellero che passa il testimone a Settimo Zambon; a Chiuppano (Francesco Faccin) e a Marano Vicentino (Rino Gaspare Rosin) si è nella media delle due settimane.

 

 

Ad Asiago si dimostra più coriaceo Adriano Rodighiero che colleziona due mesi esatti. A Rotzo va malissimo. Matteo Cerato permane 35 giorni. Molte altre località hanno la stessa storia e sarebbe ripetitivo enumerarle tutte. Anche la ripartizione della provincia cambia con la Repubblica. Nel Ventennio il fascismo vicentino era ripartito in 18 zone a cui era assegnato un ispettore di zona. Ora le zone vengono ridotte a 12, ciascuna con II suo ispettore. Ed è inutile dire che fra i nomi dei nuovi ispettori non ce n’è uno che indichi una qualche parvenza di continuità.

 

 

 

CARATTEROLOGIA FASCISTA 

 

 

E’ l’ora di serrare i “ranghi”. Giovanni Caneva, il Federale, deve sostituire, oltre ai tiepidi di cui non ci si può fidare, anche gli “assenti arbitrari”. Lo stesso settore amministrativo va rivisto. Al posto del camerata Negrello “che non ha più voluto rientrare nei ranghi” va Zordan, fascista repubblicano fresco al cento per cento. Del direttorio uscente non si presenta nessuno, neanche Adolfo Leali se la sente. Entra invece una figura secondaria, un certo La Lampa a cui, data la situazione, viene affidato l’Ufficio “I” (investigativo) di Palazzo Littorio.

 

 

Per il prof. Edoardo Fanton, già membro di spicco della Federazione vicentina si devono sudare le classiche sette camicie per farlo iscrivere. Lui, per parte sua si rivolge all’amico prof. Trivellato per consigliarsi se gli conviene o no l’iscrizione al Fascio Repubblicano. Trivellato gli dice di starsene lontano, ma poi Fanton per paura di rappresaglie (era un anziano ex squadrista della prima ora) fa di testa sua e si iscrive. Viene addirittura promosso a Preside della Provincia, una carica che non aveva voluto. E Fanton si “vendica” tollerando i suoi impiegati quando parlano male dei fascisti, fa finta di non sentire, sopporta addirittura che il giorno del giuramento alla Repubblica Sociale non si firmino neppure i registri (le schede personali resteranno in archivio fino a quando la Prefettura non invierà una richiesta scritta).

 

 

Caneva sostituisce pure il Provveditore agli Studi e promuove un suo uomo di fiducia, l’insegnante di Chiampo Ruggero Mazzocco. Ma la promozione rischia di essere subito azzerata da una mossa intempestiva del Ministero della Cultura con sede a Padova. A Vicenza infatti arriva di corsa un tal prof. Portovenere con in tasca la nomina.

 

 

Trova, invece del posto vuoto, il delfino di Caneva, il Mazzocco Ruggero: scontro verbale durissimo e indignazione del Portovenere. Il quale, passata l’ira, decide di intervenire direttamente su Caneva (e anche sul Prefetto Neos Dinale) per sbloccare la situazione e allontanare l’usurpatore. Però non c’è niente da fare, il Caneva si sente forte e sfida il Ministero.

 

 

“Per Vicenza io voglio un fascista repubblicano, iscritto al partito, lei lo è?”. La domanda lascia sbigottito il Portovenere poichè a Padova nessuno gli aveva detto che era meglio iscriversi. La sua destinazione, alla fine, sarà Porto Maurizio mentre il Mazzocco si assiede tranquillo.

 

 

Con il consenso, anzi con l’invito del Federale si darà impulso immediatamente ad un giro infernale di denunce contro i maestri e gli insegnanti antifascisti, mentre i più esaltati tra i dirigenti del provveditorato, come Scipio Fabbri, continuano ad arare le menti dei giovani aiutandosi con la “mistica fascista” (arriveranno a proporre la costituzione di battaglioni di studenti per difendere la città di Vicenza!).

 

 

 

Segretario particolare del Caneva diventa Giovanni Vingiani il cui incarico, oltre che essere zelante seguace del capo, è di spremere ditte ed Enti per sovvenzionare la campagna (promossa sempre dal Caneva) “Armi alla Patria”.

 

 

 

In Federazione, nel frattempo, si comincia a prendere in giro il Federale. La sede centrale di Vicenza (Palazzo Littorio) viene ribattezzata da camerati maligni “casa Caneva” poiché oltre ai due fratelli Fausto e Duilio, che partecipano fin dal primo momento alla vita delle squadre d’azione, ci bazzicano, anzi vi abitano, un’altra dozzina di parenti, zie, figli, nipoti.

 

 

Caneva comunque tira diritto e nomina capo dei servizi politici il Dott. Giulio Vescovi (che finirà poi ucciso in qualità di commissario prefettizio di Schio dai partigiani) “figura di combattente, decorato al valore nella guerra d’Africa, ecc...”.

 

 

Un altro personaggio che si attacca al carro di Giovanni Caneva è il prof. Enrico Moneta, “sfollato politico dell’Italia Centrale” (venne al Nord per evitare di essere ammazzato dagli antifascisti come ebbe a dire in parecchie occasioni).

 

 

Anche Moneta, ovviamente, è squadrista, marcia su Roma, Sciarpa Littorio, ecc.... E fascista repubblicano soprattutto. Il sodalizio Caneva- Moneta si dimostra subito molto solido all’apparenza. Caneva, di idee “proletarie”, acceso sostenitore di una politica sindacale di “sinistra”, si appoggia molto nella sua azione politica alle “masse” (opportunamente inquadrate).

 

 

Il Moneta, invece, figura di “intellettuale”, insiste sulla opportunità che a guidare i destini della Federazione dei Fasci Repubblicani di Vicenza siano proprio gli intellettuali. Nominato Presidente dell’istituto di Cultura Fascista, Enrico Moneta batte su questo chiodo ad ogni occasione. Di conseguenza il contrasto è sicuro e alla fine esplode.

 

 

Cosi Caneva resta unpo' più solo con un compito rischioso. L'uomo si dimostra a tutti molto contraddittorio. E’ capace di redarre le prime liste di proscrizione (degli antifascisti), organizza presso l’osteria “Impero” una specie di magazzino viveri ed armi per i componenti delle squadre d’azione, preme contemporaneamente sui fasci provinciali con energia perchè alla fine escano dal mazzo i nomi dei famosi “reggenti”, e tenta altresì la carta delle strategie  ''alternative” con gli ambienti dell’anti-fascismo militante, cosa, questa, di cui menava gran vanto.

 

 

Convinto o no, è un fatto certamente che durante la gestione Caneva, tra il Federale e un gruppo di militanti comunisti vi sono due clamorosi "incontri. In discussione la politica sociale della Repubblica che cerca (prima con le buone) di recuperare il dissenso che cresce nelle fabbriche. La nascita delle commissioni interne aveva infatti messo in allarme il sindacalismo unico fascista. E ovviamente qual mezzo migliore che non offrire al “nemico” su un piatto d’argento lusinghe e concrete prebende?

 

Giovanni Caneva alla tematica sociale della Repubblica ci crede. E preme sul pedale della “socializzazione” delle aziende. E’ questa un’operazione confusa, più di facciata che di sostanza, che ha lo scopo non dichiarato di dare una riverniciatura al regime, ma che allarma, invece, l’alleato e padrone tedesco. Caneva comunque ad ogni buon conto ci tenta e gli riesce con la ditta S.A.P.A. di Leonida Bordin di Bassano, fa il paio con la I.V.E.M. di Montecchio Maggiore, continua con le Fornaci Venete, le Tramvie Vicentine, ecc....                                                                                                                                              

 

 

Il Federale gira continuamente, entra nelle mense aziendali, parla a cuore aperto agli operai della Beltrame, della SAREB di Montecchio Maggiore, ma non riesce a riscuotere consensi. Tra la massa operaia la credibilità della Repubblica è pari a zero, mentre gli ambienti industriali, fiutato il pericolo, avviano contatti con gli antifascisti. Anche nel campo della pubblica opinione Giovanni Caneva vuole dimostrare che il fascismo repubblicano è un’altra cosa, che parole come onestà e trasparenza sono le caratteristiche del nuovo regime. Ma gli va male.

 

 

E gli vanno male pure gli attacchi velenosi contro gli ambienti della borghesia cittadina. Emblematico il caso dell’avvocato Rezzara, ex direttore delle Tramvie Vicentine. Avviata la “socializzazione” dell’Azienda si “scopre” che in casa del Rezzara vi è un vero e proprio arsenale alimentare.

 

 

 

Prontamente Angelo Berenzi, direttore del “Popolo Vicentino” monta una campagna diffamatoria con un famoso articolo: “la caverna del mago Bakù”, che ha lo scopo di rovinare l’immagine di certa borghesia antifascista e accaparratrice. La cosa riesce però a metà: infatti la requisizione in casa del noto esponente liberale aveva fruttato (come un’informativa del CLN nel dopoguerra confermerà) centinaia di bottiglie di vino pregiato, liquori, damigiane di grappa, formaggi, cioccolato, scatolette, marmellate, conserva, ecc. “per un ingente valore”.

 

 

Il tutto viene “segretamente custodito” nei locali di Palazzo Littorio ma alla fine il blitz si ritorce contro gli ideatori. Il ben di Dio strappato ad un avversario un pò troppo “individualista” (a meno che non si trattasse di aiuti ai partigiani) nel giro di due mesi si volatilizza.

 

 

Pian pianino salami, formaggi, liquori, ecc. scompaio, rosicchiati dai topini in camicia nera. Non sono però solo gli scandali interni a minare la credibilità del Caneva, uomo, come si è detto, certamente contraddittorio ma anche dotato di una sua solitaria onestà personale. C’è dell’altro. Oltre alla sociaalizzazione, che manda in bestia industriali e tedeschi, Caneva si mette nei guai nientedimeno che con la Direzione Generale del Mistero degli Interni.

 

 

 

Individuato un carico di olio commestibile, diretto (uso proprio) ai funzionari della polizia vicentina, lo fa sequestrare. Ma la mossa non è gradita e l’azione (molto "popolare”) per poco non gli costa il posto. Suda freddo quando poi gli vengono a dire che il padre è stato arrestato ed è finito in prigione perchè colto in flagranza di reato. Il congiunto trasportava infatti 40 quintali di cuoio nascosti sotto una coltre di finte masserizie adagiate su di un carro. Il fattaccio viene soffocato, ma il Federale accusa il colpo.

 

 

 

QUESTURA UN NIDO DI OPPOSITORI

 

 

L'11 dicembre 1943 anche la Questura Repubblicana di Vicenza ha il suo nuovo capo. Arriva da Arezzo, con il grado di maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana, Cesare Linari, squadrista antemarcia. Il comm. Ferrara, funzionario di carriera, viene nominato ispettore del Ministero degli Interni. Con Linari la Repubblica di Salò ha a Vicenza un uomo relativamente fedele, capace di condurre indagini dure e spietate e di intrattenere rapporti con chicchessia, anche e soprattutto con gli antifascisti.

 

 

I primi tempi però, sono duri per i “ribelli”. Poco tempo dopo l’uccisione di Alfonso Caneva, zio del Federale Giovanni, caduto a Marostica, Linari capeggia un rastrellamento. Nell’occasione tre partigiani vengono uccisi. A sentire le lagnanze dei suoi stessi subordinati Linari tiranneggia la Questura, molla ceffoni durante gli interrogatori dei fermati, interviene pesantemente verso i suoi agenti dell’Ufficio Politico affinchè arrestino e reprimano duramente ogni forma di dissenso.

 

 

Poi, invece, Cesare Linari compie una piroetta e si fa in quattro per scarcerare, rassicurare le famiglie dei detenuti, mettendosi così in urto con il capitano della Polizia Ausiliaria Giambattista Polga e alla fine anche con il Federale Giovanni Caneva.

 

 

Con quest’ultimo i rapporti diventano molto freddi, al limite della rottura. Ma Linari non se ne preoccupa e continua con il suo zelo fino a meritarsi addirittura un elogio da Mussolini di cui va tutto fiero. Arrivano però anche le lettere anonime condite da minacce verso la sua vita. E allora Linari diventa insicuro, si circonda di armati, tutti agenti della Polizia Ausiliaria, i suoi prediletti.

 

 

Ma anche così Linari non è sicuro del tutto poiché nella Polizia Ausiliaria i “partigiani” sono parecchi (sono infiltrati su ordine del CLN vicentino) e la sua vita è in mano ai dirigenti antifascisti che però non daranno mai l’ordine di uccidere il questore poiché la sarabanda di arresti, ceffoni, e relative scarcerazioni fa loro capire che il successore potrebbe essere anche peggio.

 

 

Linari, e questa è la cosa strana, si circonda di collaboratori, tutti sotterraneamente antifascisti. Il Dott. Follieri, commissario di provata capacità, già in contatto con il CLN. Il Dott. Antonio Feliciani, che assume con Linari la carica di dirigente della Sezione Politica, dà all’ufficio un impulso esclusivamente burocratico. Con gli arrestati si comporta correttamente ed è addirittura premuroso verso le loro famiglie. Nello stesso tempo lo si sente deplorare le azioni di “brigantaggio” effettuate dai nazifascisti nel territorio della provincia.

 

 

Chi aiuta concretamente, oltre al Follieri, il movimento resistenziale, è invece il Dott. Giacomo Orioles, che si avvale della sua posizione di segretario del Questore per fornire informazioni e favorire la scarcerazione di alcuni giovani detenuti. Ma in Questura di Vicenza non sono certo tutti antifascisti. Più di cinquanta infatti sono gli iscritti al P.F.R e fra questi vi sono gli scherani dalle mani pesanti e i sanguinari che si offrono volontari per i rastrellamenti. Ciò nonostante i fascisti repubblicani vicentini non si fidano nè del Questore nè dei suoi agenti e si sfogano tra di loro definendo la Questura un “nido di vipere”.